venerdì 27 febbraio 2015

L'OGGETTO PIU' ODIATO DALLE CASE FARMACEUTICHE.

Ci sono giorni che ti svegli in compagnia.

Una compagnia fastidiosa, più frequente in inverno: sono gli acciacchi & i malanni di stagione.

La sera prima - come ogni sera - hai approntato il tuo mezzo a due ruote, preparato la borsa impermeabile, il vestiario, allo scopo di minimizzare il tempo necessario a prepararti e uscire per strada.

Poi, però, ti svegli una pezza. Carta vetrata in gola, una pietra nel naso, piombo al posto dei bronchi.

Ti viene quasi il dubbio - ma solo per un fugace nanosecondo - di rinunciare alla bici, solo per oggi, in attesa di tempi migliori.

In un sussulto di dignità e coerenza, opti per procedere con il tuo normale stile di vita, prendendo la bici. Magari coprendoti un pò di più.

JUST DO IT, fallo e basta, recitava una campagna pubblicitaria anni fa.

E tu lo fai.

E via via che mulini quelle tue gambe, teoricamente una regione anatomica situata agli antipodi delle zone incriminate naso gola e torace, avverti la magia.

Personalmente non sono mai riuscito a spiegarmelo, e sì che mi sono incaponito ben più di una volta a usare la bici in tali condizioni nonostante gli appelli di amici & familiari.

I tuoi acciacchi scivolano verso il basso, e vengono tritati, sminuzzati, impolveriti dal moto rotatorio delle pedivelle. Nel volgere di una mezz'oretta stai DECISAMENTE meglio.

Il rinnovato benessere, sebbene magari non esattamente ottimale ma sicuramente meglio del risveglio, ti accompagna lungo la giornata.

Torni a casa, ti schiaffi sotto una doccia che neppure il Nevado del Ruiz nel 1985, e sei un altro.

Ti godi una serata tranquilla, gargarizzi una tisana da soffione boracifero, poi tutti a nanna.

Pronto per un altro risveglio pieno di acciacchi, da curare subito a furor di garretti.






MEGLIO MALE ACCOMPAGNATI CHE SOLI.

Bene, bravi, bis.

Sono contento che negli ultimi tempi si vedano più ciclisti di un tempo.

Volendo fare paragoni, solamente due anni fa se ne vedevano di meno.

Ne vedo la mattina, col buio, di giorno, sui marciapiedi, e non mi sento più solo.

E' tutto un pedalare con solerzia, tranquillamente, diluendo la presenza delle scatole puzzolenti per strada. Intabarrati o meno, con le scarpe coi tacchi o le sneakers, la presenza dei ciclisti alleggerisce l'atmosfera greve della mobilità a ciclo Otto.

Ciò getta nuova luce sul futuro delle zone dove vivo, nella speranza di poter un giorno raggiungere i livelli di vivibilità che all'estero sono all'ordine del giorno.

C'è un "però", grosso come un casa.

La maggior parte dei miei co-frequentatori sulle due ruote sono invisibili se c'è buio.
Non li si vede, scompaiono, per riapparire all'improvviso nel cono di luce delle auto, o nel chiarore fioco di un lampione. Per il resto, buio pesto. Provi a seguirne la sagoma nell'oscurità, la intuisci, sai che il ciclista è lì, ma NON SI VEDE.
Non un catarifrangente, una luce, per quanto piccola, nulla. Uomini, donne, ragazzi, indistamente. Qualcuno azzarda un giubbottino, ma il risultato è insufficiente.
E se non riesco a vederli io, che sto pedalando tranquillamente, figurati lo squinternato di turno al comando del suo brillantissimo SUV da due tonnellate e mezzo con visibilità da autoblindo corazzato (cioè quasi nulla).

Ora, si, va bene, andare in bici è positivo eccetera.

MA PERCHE' CACCHIO RISCHIARE LA VITA PIU' DI QUANTO GIA' NON FACCIAMO?

Perchè dare tutti questi pretesti agli autosauri, che già ci odiano a morte per il semplice fatto che non stiamo a marcire in coda come fanno loro?

Perchè alimentare l'imperante fantasia malata popolata da ciclisti mannari, aggressivi, strafottenti, cattivi dentro, puzzolenti e amanti del disordine? Noi non lo siamo comunque, e queste sono fantasie scaturite dall'invidia, ma il buio è OGGETTIVAMENTE buio, e un automobilista idiota lo è altrettanto OGGETTIVAMENTE. Poi fioccano pannelli luminosi deliranti, tipo "Se usi la bici di notte accendi le luci", posizionati in punti della città dove le bici sono vietate (c'è se non sbaglio un vialone da qualche parte a nord di Milano che sfoggia cotanta premura, ai confini della paranoia).

Andare in bici genera così tante endorfine che, talvolta, ti senti a dieci metri da terra. Purtroppo però siamo a livello paraurti, cofano e parabrezza, e dobbiamo tenerne conto: la conquista del nostro territorio stradale passa soprattutto dal FARCI VEDERE, quando siamo là fuori.

Al di là della - peraltro meritoria - attività di associazioni locali e nazionali in tema di diffusione della bicicletta, è l'esempio quotidiano a fornire una percezione concreta della nostra presenza in strada, soprattutto in un momento storico dominato dal principio "Se non si vede, non esiste".

Illuminatevi. Portate fuori quella luce che avete dentro.






domenica 22 febbraio 2015

NON C'E' PEGGIOR SORDO.

Interno giorno.
Dal fruttivendolo.

- Buongiorno, desidera?

- Buongiorno anche a Lei, vorrei delle mele.

- Perbacco.... ma proprio proprio... mele?

- Ehm, si. Mele, facciamo cinque/sei, grazie. Di quelle rosse.

- Sono spiacente, non ne ho. Però ho delle pere, uva, banane, e mi sono appena arrivati i clementini.

- No, grazie, io ho bisogno di cinque/sei mele. Rosse. Sa, devo preparare una torta. Ho bisogno che siano ben mature.

- Ma che peccato. Magari può cambiare la ricetta, e usare le pere, l'uva, o anche le banane. ha pensato ai clementini?

- Beh, grazie, a me servono proprio le MELE. Mele e basta. Rosse e ben mature. Se non ne ha grazie lo stesso, arriv...

- MA NO!!!! NON SE NE VADA!!! Se desidera ho anche della frutta sciroppata! Pesche in scatola!

- Grazie lo stesso, davvero. Buona giornata.

- MA SU! Ma in fondo che differenza fa? Sempre di frutta si tratta!!

- Mi scusi, ma cosa dice? Se ho bisogno proprio di mele saranno affari miei, no?

- Ma che caratterino!! Non c'è bisogno di reagire così!! Ma è proprio sicuro che la ricetta dica ESCLUSIVAMENTE mele?

- Senta, va bene così. Lei mi sta facendo perdere tempo. ArrivederLa. (esce)

- Ma che cos'ha contro la frutta? Con tutta quella che c'è lei si è incaponito sulle mele!! E magari non le sa neppure preparare bene! Dovrebbe ringraziarmi per i consigli che le do!

- (torna indietro) Adesso non esageri e moderi i termini.

- Ah, ecco!!! Vede che allora E' LEI ad essere aggressivo? Io tento in tutte le maniere di accontantarLa e Lei mi dà contro?

- Lei NON mi sta dando ciò che mi occorre, e poi finisce per offendere!

- La vita le dà tutta una serie di alternative, che sono comodamente disponibili, e Lei invece si è intestardito sulle MELE!!!

[Eccetera, eccetera, eccetera.....]


Ora, nella conversazione qui sopra, inventata di sana pianta, ho cercato di riprodurre (ok, magari in modo semplicistico e volutamente caricaturale) il tono prevalente di certi commenti che capita di leggere sui siti dei giornali mainstream, la schiacciante maggioranza dei quali aderisce alla seguente filosofia qui delineata per sommi capi e non esaustiva:

  1. I ciclisti non hanno nulla di cui lamentarsi;
  2. C'è già la strada, quindi non c'è bisogno di costruire ciclabili;
  3. Non si capisce perchè i ciclisti siano così arroganti e aggressivi;
  4. I ciclisti ostacolano le auto;
  5. I ciclisti non sono mai contenti di ciò che viene fatto per loro.

A parte il fatto che i Punti 2 e 4 sono in aperta contraddizione, emerge una grossa ignoranza di ciò che è realmente necessario per sviluppare una mobilità ciclistica propriamente detta. E questo lo impari solamente pedalando o, in alternativa, ascoltando chi già lo fa senza le fette di salame che oggi ottundono i sensi di chi si pregia di commentare su internet.

Ma quello che mi preoccupa meggiormente è la mia esperienza "umana", ovvero non digitale nè veicolata dai media più o meno social: ovvero ciò che mi capita di ascoltare o di ricevere de visu quandi si parla dell'uso quotidiano della bici per andare a lavoro.

Gli elementi ricorrenti, di cui ormai sono arcistufo, sono (altro elenco non esaustivo):

- "Ma come, possiedi due auto e tu usi la bici?";

- "Ma come, abiti a un chilometro da una stazione ferroviaria e tu te la fai tutta in bici?";

- "Il fatto che TU usi la bici non vuol dire che TUTTI GLI ALTRI che usano l'auto siano dei fessi";

- "Il semplice fatto che vai in bici, tu e pochi altri, non vuol dire che ABBIATE DIRITTO alle piste ciclabili";

- "Se insisti ad andare in bici e rischiare la pelle PER SCELTA, prima o poi ti succede qualcosa di grave" (Variante: "Se ti accade qualcosa te la sei cercata");

- "Voi ciclotalebani siete aggressivi, violenti e intolleranti".

Nonostante i pallidi cenni - recentemente intravisti - di cambio di mentalità nel fare scelte di mobilità urbana e no, per mia constatazione diretta il tenore comune di questi commenti vive una costanza inscalfibile, perlomeno nell'ambiente in cui vivo io.
E' una specie di monolite granitico solidamente impiantanto nelle convinzioni comuni, intriso di indifferenza, abitudine al peggio, indolente adattamento alla comodità anche quando è superflua.
Le conseguenze più evidenti, anche a livello di mera conversazione, sono:

  • un malcelato stupore nell'apprendere che esista un qualcuno sulla faccia della Terra disposto a pedalare per due ore al giorno per raggiungere e tornare dal posto di lavoro;
  • un evidente senso di irripetibilità del fenomeno (tu che pedali sei e rimarrai un caso unico), che pertanto viene liquidato come una bizzarrìa, un'eccezione alla regola immutabile dell'automobile, qualcosa da non imitare, o da cui tenersi possibilmente alla larga;
  • una palese incomunicabilità di fondo: come relazionarsi con uno che fa una vitaccia del genere, non manifesta interesse alcuno per le auto e neppure per le moto, spende "solo" quattrocento euri all'anno in carburante (quando incontri gente che la stessa cifra se la fuma in un mese), non si lamenta del clima, se ne fotte se piove o c'è sottozero. La medesima barriera comunicativa si materializza quando, mano a mano, risulta evidente il tuo ottimismo di fondo, la tua positività, il tuo atteggiamento roseo verso il mondo, con l'ovvia eccezione dei rincoglioniti che tentano di ucciderti per la strada e le buche sull'asfalto lasciate dal traffico intenso;
  • un larvato stigma sociale, teso a farti passare per "pazzerello" o "mattacchione", che nei casi più gravi giunge ad etichettarti come uno scellerato sic et simpliciter. Una variante prettamente femminile predilige l'analisi familistico-psicologica, appioppandoti il titolo di egoista, egotista o egocentrico, che rischia la collottola per inseguire le proprie pulsioni nonostante una famiglia e dei figli: solitamente questo tipo di intervento sulle caviglie in scivolata a piedi uniti (insospettabile da parte di una signora) si smorza da sè quando racconto delle vacanze di due settimane in villaggio turistico quattro stelle per quattro persone, pagate per tre estati consecutive unicamente col risparmio dovuto all'uso della bici. Sequenza che peraltro ancora deve terminare.

In conclusione, le difficoltà del ciclista pendolare non si fermano quando scendi dal sellino: esiste tuttora un diffuso fattore culturale - trasversale in termini di estrazione sociale - che rende questa scelta estranea ed incomprensibile ai più.

Se vogliamo che certe scelte - fatte nel segreto dell'urna - favoriscano un autentico cambio di direzione verso una mobilità sostenibile, è esattamente il "fattore culturale" che va affrontato e, possibilmente, modernizzato.

Come? Continuando a fare ciò che facciamo: ossìa pedalando, e poi raccontandone.

Io continuo a ripetere che, se lo posso fare io, lo possono fare tutti.

Non ci sono più scuse per nessuno.






giovedì 12 febbraio 2015

L'ALLEGRA VITA DEL CICLISTA - Parte 7: Visioni psichedeliche.

Immaginate che nevichi.

E, di per sè stesso, questo potrebbe anche non essere un ostacolo. Infatti avete deciso comunque di prendere la bicicletta per andare a lavoro, attrezzandovi alla bisogna con gomme chiodate e abbigliamento consono.

Immaginate di tornare da lavoro nel tardo pomeriggio lungo la vostra usuale strada provinciale larga e rassicurante, il solito traffico, le solite buche.

Vi godete lo spettacolo: un lieve turbinio vi mulina attorno, lievi fiocchi danzano nel cono di luce del faretto anteriore, tutto è ovattato, un paciugo scivoloso vi imbratta da sotto ma la cosa non vi preoccupa. Solo un pò più di attenzione, per il resto vi state divertendo. Vi sentite privilegiati.

La temperatura bassa e la vostra sudorazione, però, cominciano a giocarvi uno scherzetto antipatico: le lenti in policarbonato trasparente degli occhiali cominciano ad appannarsi copiosamente. Non c'è dito di guanto che possa rimediare a tale evenienza: anzi, il risultato che ottenete cercando di pulire col dito è ASSAI peggiore del male.

In breve, siete costretti a scostare gli occhiali dal volto per vederci qualcosa, esponendo gli occhi all'aria.

Immaginate allora che proprio in quel momento due fiocchi di neve, fratelli mai gemelli della stessa porzione di nube, si materializzino un centinaio di metri più in alto. Fluttuano leggeri, attirati verso terra, prima vicini, poi più lontani, poi ancora vicini, mentre scendono lievi e soffici.

Pensate adesso che i due fratelli, quei due minuscoli bastardi bianchi, piccole sferette irte di ghiaccio, nel loro moto discendente assumano (casualmente?) una distanza reciproca esattamente pari al vostro asse interpupillare, esattamente alla stessa altezza dei vostri occhi, esattamente mentre passate voi, che li raccogliete al volo con l'iride oculare. Due lamette ghiacciate piantate negli occhi allo stesso momento.

Nella subitanea cecità che ne consegue, l'oscurità si riempie di visioni a tema artico: Scott con la slitta al Polo Sud, il Generale Umberto Nobile, la Titina e la Tenda Rossa, Roald Amundsen, il blizzard canadese, il Passaggio a Nordovest.

Riuscite a riaprire gli occhi giusto in tempo per evitare un TIR bulgaro lanciato ai novanta e rimettervi in traiettoria.

Porca zozza, dannata neve.






domenica 8 febbraio 2015

HOMO HOMINI LUPUS

Forse non avrei dovuto.

Probabilmente sono stato eccessivamente rude, a urlare così, passando in bicicletta e filando via senza neppure rallentare.

Sulla ciclabile di San Donato, così, alle prime luci del giorno, un pedone di nero vestito che vaga incerto mentre tenta di riesumare le spoglie del suo smartphone, a capo chino e cuffiette. Incedo spedito verso il posto di lavoro, cercando di indovinarne la traiettoria ed evitare un impatto, ma la traiettoria è assai ondivaga e mi preoccupo con venti metri di anticipo. Quando sono a tiro di voce prorompo con un "Ma questa è una ciclabile, ca22o!!!".

Avverto appena le scuse del pedone, spaventatosi a sua volta, e mi sento una merda a pedali.

Sarà stata l'adrenalina accumulata solo quindici minuti prima, quando un SUV in vena di pieghe mi ha fatto allegramente un gancio a destra a un metro scarso e, in rapida sequenza, un autoarticolato ha deciso di uscire da una strada laterale a dieci metri dal mio arrivo, e quasi finivo sotto il pianale.

Ma questo, riflettevo poi, non mi autorizza a inscenare un episodio di "road rage" in scala ridotta verso il primo che mi capita a tiro. E non me ne frega un tubo se può sembrare del moralismo da accatto.

Se voglio che le cose cambino, devo cominciare da me stesso.

Altrimenti non mi rimangono argomenti per rompere gli zebedej al prossimo.