mercoledì 31 ottobre 2012

IL DOPO

Dopo aver raggiunto ciò che ti eri convinto fosse il tuo limite, ed averlo oltrepassato,

dopo aver affrontato una discesa piena di curve col sorriso stampato in faccia,

dopo aver pianto di meraviglia scoprendo un lago alpino al termine di una salita di venti chilometri,

dopo aver riconosciuto il tuo stesso sguardo negli occhi di un altro cicloviaggiatore, incontrato per caso in mezzo al nulla,

dopo avere affrontato la paura dei cani randagi, e dei cani da pastore,

dopo avere pedalato contro un maestrale da 100 all'ora per 100 chilometri, e aver fatto pari e patta;

dopo avere conosciuto che i rimedi a fame, sete, freddo, caldo e fatica stanno sempre un metro oltre la tua ruota anteriore,

dopo avere conosciuto quanta nostalgia richiami il ricordo di quella stessa fame, sete, freddo, caldo e fatica, mentre sei fermo in coda in auto per andare a lavoro, mesi dopo il tuo ritorno,

dopo aver ammesso - soprattutto a te stesso - di non conoscere il vero motivo che ti spinge a viaggiare in bicicletta per giorni in posti sconosciuti, e per trovarlo hai bisogno di partire di nuovo,

dopo avere pazientemente rodato e provato l'armonia tra il motore delle tue gambe, la guida delle tue braccia, la consapevolezza nella tua mente e la curiosità nei tuoi occhi,

dopo avere ricevuto sorrisi, incitamenti, regali e saluti da perfetti sconosciuti,

dopo esserti trovato a tuo agio sotto un acquazzone,

dopo esserti trovato a disagio in mezzo al traffico di una città a te estranea, ma  soffocata dalle auto esattamente come la tua Milano,

dopo aver conosciuto la difficoltà di addormentarti per la troppa stanchezza, o per il troppo silenzio,

ora che sai quanta vita ci sia in un bosco in montagna di notte,



dopo avere conosciuto quanta rinuncia contenga una coda di auto incolonnate, passando loro accanto in bici,

dopo avere costituito l'unica forma di vita umana per decine di chilometri,

dopo avere pedalato in compagnia del grifone, che ti teneva d'occhio veleggiando a dieci metri da te, guardandovi in faccia,

dopo avere mangiato una pizza a fine tappa con gli occhi chiusi dalla stanchezza, esserti addormentato sul piatto subito dopo ed essere stato svegliato dal cameriere, alla chiusura del ristorante,

dopo avere imparato cosa significa mollare su due piedi la bici sul parapetto di un ponticello, e approfittare del ruscello sottostante per un bagno, per poi ripartire meglio di prima,

dopo avere parlato da solo, all'imbrunire, per tenerti sveglio e farti coraggio per concludere  una tappa interminabile,

dopo avere guardato dal basso la tua prossima salita con rispetto e deferenza, e arrivato in cima voltarti indietro e sentire che quella salita metro dopo metro l'hai assorbita dentro, la porti dentro, te la porterai per sempre dentro, e da quel momento in poi sarà una delle misure del tuo essere,

dopo che hai conosciuto quanto devastante potere un saliscendi protratto per ore abbia sulla  tua volontà di avanzare,

dopo avere imparato a riconoscere i cambiamenti del tempo fiutando l'aria,

dopo avere conosciuto cosa significa non parlare con nessuno per ore, talvolta giorni, e tutto sommato non sentirne la mancanza,

dopo avere contratto il tuo tempo entro la prospettiva infinitesimale della prossima sosta, il prossimo centro abitato, la prossima curva, la prossima salita, il prossimo chilometro, la prossima pedalata, la prossima sorsata, il prossimo respiro,

dopo avere scoperto quanto ti senti vivo quando sei morto di fatica,

adesso che sai quanto ti sia difficile trovare le parole per spiegare agli altri ciò che hai vissuto,

dopo tutto questo, quando ritorni a casa dopo un viaggio in bicicletta,

ma come fai a tornare alla normalità?





sabato 27 ottobre 2012

MEDICINE...

... ovvero quei video che riescono a ottenere una forza espressiva pazzesca partendo da poche, semplici cose: un'immagine, una semplice parola, un'ambientazione.
E ricordi e sensazioni scoppiano dentro, vissute in viaggio su una strada, sotto il sole e in mezzo al nulla ma senza per questo provare solitudine. Io i miei tatuaggi li porto dentro.

Questo post è una specie di serbatoio, una ciambella di salvataggio, una cassetta di pronto soccorso per le giornate uggiose, quelle con la voglia di caricare la bici e macinare quelle centinaia di chilometri in un territorio mai conosciuto prima, di farti assorbire da un paesaggio, di ammirare un tramonto dalle tinte mai viste, di comunicare con persone che con capiscono la tua lingua, ma capiscono cosa significhi essere giunto su una bicicletta carica di bagagli.

Questo post comincia con due video; non escludo che se ne aggiungano altri in futuro. Vi invito pertanto a tenere d'occhio l'evoluzione di questo post.

Sappiate farne buon uso, per rimanere vivi dentro.







  • IMPOSSIBLE IS NOTHING (LO, SO, FONDAMENTALMENTE E' UN COMMERCIAL, MA CHISSENEFREGA, A ME PIACE E DICE COSE BELLE)





sabato 6 ottobre 2012

A ME UN BADILE, PLEASE!!!

Viaggiare in bici è bello per tanti motivi.

Uno di questi è il contatto con le persone, diretto, personale, visivo, olfattivo, e se vuoi anche tattile.

Ciò apre la via a una delle più potenti leve del progresso umano: la conoscenza.

Conoscenza di diversi stili di vita, di altri modi di esistere e di vivere (non sono la stessa cosa, non coincidono), pensare e comportarsi. Da questo tipo di conoscenza ho tratto quelle che annovero tra le mie più grandi lezioni.

Una di queste l'ho avuta di recente.

CorsicaTour 2012.

Bonifacio, parente povera di Saint Tropez.

Arrivo nella ridente località di sabato pomeriggio, al momento dello struscio e dell'esibizione, con alle spalle quattro giorni e 400 km pedalati tra afa, fatica, sudore, raffreddore e malumore. Soddisfacenti ma impegnativi.

La temperatura crematoria suggerisce una pausa prima degli ultimi cinque km per raggiungere il campeggio della sera.

Decido quindi di unirmi allo struscio lungo la passeggiata che costeggia il molo del porto vecchio, alla cui sinistra si dipana una teoria di dehors dei vari bar e baretti, a quell'ora frequentatissimi per aperitivo e happy hours.

Sfilo a passo d'uomo senza scendere dalla bici, incuriosito dalla fauna abbronzata e in tiro, mollemente stravaccata sui divanetti. Un'andata lungo il molo e un ritorno da una stradina parallela, mezz'oretta in tutto inclusa la spesa ad un market. Mi ritrovo quindi al punto di partenza, mi godo un deejay set al tramonto con aperitivo, sempre senza scendere dalla bici.

Vengo avvicinato da una pattuglia in mountain bike della locale Gendarmerie, a malapena cinquant'anni in due. Con un inglese all'altezza della situazione vengo garbatamente redarguito dai due baldi ragazzotti per avere percorso un'area pedonale senza scendere dalla bici. Mi fanno elegantemente presente che avrei dovuto condurre la bici a mano.

E, senza darmi il tempo di profferir parola, mi elargiscono gratuitamente la lezione personalizzata del giorno, della settimana, del mese, anno, lustro, ventennio, secolo. Una lezione di vita:

"Signore, Lei deve scegliere tra essere veicolo o essere pedone".

Così, senza scomporsi, senza alcun accenno di autoritarismo, né la minima aggressività nel linguaggio verbale o corporeo, due sani ragazzotti incaricati di pubblico servizio perseguono il loro dovere con equilibrio, forti dell'incarico a loro affidato per la comune incolumità. Non stanno esibendo il loro potere, stanno solo richiamando una regola accettata da tutti quaggiù. Sono quasi imbarazzati a doverlo far notare, quasi come se da noi qualcuno fosse, che so, costretto a far notare che non si infilano le dita nel naso o non ci si gratta il pacco.

Puro, sano e luminoso buonsenso comune, pacatamente richiamato e fatto valere in un soleggiato sabato pomeriggio nel sud della Corsica.

E vaglielo a spiegare che da noi invece c'è gente che va in bici sui marciapiedi altrimenti in strada muore, che passa sulle strisce pedonali in bici senza scendere perché mancano le piste ciclabili dedicate con segnaletica specifica, che lascia le bici attaccate col catenaccio ovunque perché non c'è traccia di rastrelliera. E tanti altri comportamenti che - seppure irregolari e contro le regole in sé - non vengono neppure più notati in quanto, nel frattempo, ci siamo assuefatti a chi va ai novanta in città, a chi non lascia passare i pedoni, a chi brucia il rosso scattando sul giallo e fermandosi in coda trenta metri più avanti, a chi non si ferma neppure se investe qualcuno, a chi vorrebbe essere ringraziato quando decide di non falciare i ciclisti e, nonostante una tale affermazione a mezzo stampa rimane a piede libero, deambula senza complicazioni motorie e senza lividi sul volto, e continua a condurre la propria esecrabile  esistenza di potenziale omicida e istigatore a delinquere.

Ora: va bene che ho palesemente sbagliato e avrei dovuto arrivarci da me, ma perché da noi no?

(Poi però i due ragazzotti, adempiuto al dovere e ricevute le mie più profonde scuse, non si trattengono e mi sommergono di domande sulla mia provenienza, se sono da solo, che tragitto sto facendo, quanti km ho già fatto, etc. Un ciclista rimane un ciclista anche se veste un'uniforme e si occupa di tutelare l'ordine pubblico).

martedì 2 ottobre 2012

A TRE CENTIMETRI DALLA FINE

Io non sono religioso.
Non sono neppure un bestemmiatore, ma non sono religioso.
Il che mi porta a non attendermi granché da ciò che mi circonda, e mi sforzo di creare da me ciò di cui ho bisogno io e la mia famiglia.
Ciò mi porta anche a non credere a qualcosa, qualcuno o altro che dirige, controlla, guida la mia esistenza terrena.
Ma devo ammettere che c'é stato almeno un istante, un momento, un millesimo di secondo in cui non è stato così. E per tutto il tempo che ne è seguito devo ammettere di averci riflettuto, qualche volta.
Pomeriggio tardi di fine novembre, qualche anno fa.
E' buio, e io sto tornando da lavoro lungo una provinciale non illuminata, ma comunque larga e con quasi un metro di spazio a destra, tra la striscia bianca ed il ciglio dell'asfalto.
La bici ha due luci a LED che sparano avanti, per chi le vuole notare.
Il traffico è scorrevole e regolare lungo il bel rettilineo sul quale si aprono gli accessi alla viabilità rurale circostante che collega alcune cascine.
La gamba tiene bene, e io sto filando attorno a trentacinque all'ora accucciato a uovo.
Due, tre, quattro auto in rapida successione mi superano, lasciando poi un varco di qualche centinaio di metri con quelle che seguono.
Ed eccolo lì, il coglione che non ti aspetti.
Provenendo dalla direzione opposta, due massicci fanali a più di mezzo metro da terra (sicuro indice di SUV o di pick-up) prendono il via dalla mezzeria della strada, dove erano in paziente attesa del varco, e scattano in avanti tagliando la corsia dalla mia sinistra verso destra con l'intenzione di imboccare un viottolo laterale, dieci metri prima del mio passaggio.
Ma l'automunito, avvedendosi delle due trascurabili lucine in avvicinamento più rapido di quanto immaginato, inchioda di traverso a metà corsia.
L'abbrivio impartito al pachidermico mezzo al momento dell'accelerata non consente però una frenata immediata ed efficiente: lo spigolo sinistro dell'autoblindo si ferma cinque metri davanti a me.
A trentacinque all'ora, in postura raccolta, in combinazione invernale, con un ostacolo fisso che compare all'improvviso a cinque metri, sapendo che alla mia destra c'é un guard-rail e, oltre il buio, il fosso con l'acqua.

Ciò che ricordo da questo momento in poi è al rallentatore per i successivi tre secondi.

Accenno - perché non mi è consentito fare di più - uno scarto sulla destra. Più che uno scarto è uno spostamento di qualche millimetro del baricentro del corpo, sposto la testa, il gomito, il lobo dell'orecchio, un paio di organi interni e anche il sopracciglio. Per aggiustare la traiettoria tento di inclinare la bici, appiattisco la gamba sinistra contro il telaio, ma non ho il tempo di alzarmi sul sellino per flettermi né di aggiustare l'orientamento del pedale per non agganciare il paraurti. Non ho neppure il tempo di stupirmi, o di incazzarmi.
Un istante dopo mi tuffo nel doppio abbacinante fascio di luce dei fanali del simil-autocarro,  quasi all'altezza della mia faccia, con l'effetto di cancellare ogni riferimento circostante. Riesco nettamente a distinguere le rigature dei settori e i codici del fanale stampigliati sul vetro (quanto vicini bisogna essere per riuscirci?). Il suono del motore è un impulso ovattato, anche per effetto del passamontagna.
Aspetto l'urto.
L'istante successivo sto pedalando nella pece, ancora verticale, incredulo.
Per un secondo pedalo senza cognizione della direzione, so di avere deviato leggermente ma per l'abbagliamento improvviso dei fanali di un secondo fa non vedo dove sto andando e sto filando ai trenta all'ora.
Riesco finalmente a distinguere il bordo strada. Mi raddrizzo e riprendo a pedalare.
E solo allora arriva l'adrenalina, che mi brucia le energie che avevo fino a quel momento, e mi fa sentire fiacco e vuoto. Arrivo a casa spossato che neppure avessi fatto l'Alpe d'Huez.
Io non so se esiste qualcosa, qualcuno o altro che dirige, controlla, guida la mia esistenza terrena.
Ma una botta di culo ogni tanto ha sempre il suo perché.